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Schizzichea

[Non sarò breve. Non sarò leggera.
Se non vi sta bene, c'è la ics in alto.]

Aereoporto Marco Polo.
Malacqua scorre dalle maniche del cielo.
Nero come un buco cavo, manco Pandora avesse scoperchiato il suo vaso.
L'aereo è in ritardo e tu sei lì che passeggi nervoso tra i tornelli celesti e l'ovale degli orari.
Acqua obliqua e potente sulle grandi vetrate e vai a capire se trema più il vetro o tu.
Scavi nel bagaglio a mano, inerpicato sopra una enorme valigia blu, trovi il cellulare, a fiato smozzato.
Meg?
Che succede?


Non parliamo tanto noi due.
Non ci vediamo da più d'un anno, ci sentiamo di rado.
Tu che sei sempre in un brano imprecisato dello spartito del mondo per poi tornare con zaini di colori intagliati nel legno,
bacchette cinesi che metto nei capelli più che mangiarci il riso, statuette indiane che tengo sulle scrivanie come fermacarte, sandali algerini incrociati e allacciati, unica eccezione all'essere scalza.
Porti sempre con te i paesi in tasca, li srotoli come le buone storie, cartine di paesaggi negli occhi.
E a me basta questo.
In fondo cosa importa di Natale, di Pasqua.
Ci sono nei momenti importanti e tu ci sei per i miei.
In fondo è così che fanno gli amici.
E' così che fanno le famiglie.
Puoi venire in areoporto?
Acqua, sento solo l'acqua obliqua, pestare sull'alluminio dei miei infissi.
Mi bagno appena le labbra.
Che rapporto hai con la pioggia?
..Come?
Ho la moto. Ma anche due caschi. E un impermeabile.
Qualunque cosa, purchè arriviamo.
Verrebbe da chiedere arrivare dove. Verrebbe da chiedere arrivare perchè. Ma hai un filo di voce che sta su con gli spilli,
aggrovigliato ed impaurito
e capisco che qualunque cosa sia non è ora il momento di spiegare.
Quando?
Mi imbarco ora, ti chiamo appena arrivo.
Apro gli infissi.
Grandina sulla pietra bianca del mio balcone.
Mi siedo accanto ai vetri, come accanto ad un amico che piange.
Lo lascio sfogare, sfuriare, bestemmiare a coprire le stelle.
Passano due ore.
Dovresti essere già sceso, ormai.
Tu sei seduto al lato dell'oblò, guardi di sotto, tetti, case, nuvole.
Non vedi niente, solo acqua che a momenti s'aggruma, altri s'affina.
Uno squarcio s'apre nel cielo.
Il fulmine colpisce il secondo motore, sovraccarico, blackout.
L'areo comincia a scivolare, bucare ad una ad una le nuvole, perde quota, fa il giro dell'angolo di beccheggio, cola come l'acqua dal bicchiere se lo inclini,
35 metri in picchiata, senza rete, senza fiato.
La gente urla, sbercia, sbatte sulle poltrone, l'hostess e i suoi occhi azzurri non stanno in piedi.
Non c'è equilibrio e tu non lo vedi, non c'è una sola luce a raccontartelo.
E' un gioco di sensi, d'adrenalina, della tensione che s'affina con la paura.
La luce non torna, ma questa è casa mia.
E' un momento poi ricompare il riflesso dei miei occhi nel vetro, colori ad olio di tempesta.
Sono distratta dallo sgrezzarsi della pioggia.
Passo una mano tra i capelli, svicolo davanti al portatile, lo trascino a terra con me, accanto alla finestra.
E' troppo sottile questa camicia bianca, il marmo della soglia si mescola a qualche goccia d'acqua, mi serve a rimanere sveglia.
Il pilota in un guizzo diluito ritira la cloche in modo brusco, un gioco di slats,
rincorsa di flaps, corregge l'imbardata,cabra, la luce ritorna.
Non si riesce a ritrovarsi la voce, riattaccarci un respiro, facce dissepolte dalla paura di morire.
Il tempo di controllare d'esser vivi.
D'esser ancora al mondo.
La signora di fianco a te, si dimena, grida di voler scendere.
Qui, a notte più che inoltrata, s'è sciolto tutto il sangue, molto più della Santa Cattedrale di stamattina. 
Ma tu sei già altrove, tu sei già a terra.
Mi rialzo da terra, infilo gli stivali nei jeans, mi rintano in un giubbotto imbottito, cerniera tirata.
Respiro.
Dove sono le chiavi. Le chiavi.
La luce?
Al diavolo è praticamente l'alba.
Capodichino.
Dove dobbiamo andare?
Al Cardarelli.
Ho già capito, so dove vuoi andare. So cosa devi vedere.

La strada bagnata è un fiume che mi scivola via dalle ruote, me lo dicono le gomme che navigano a vista,
punte di ballerina sul filo asfaltato del circo infinito di questa città nel suo giorno di festa ormai passato.
Ormai è già domani.
Casco lucido d'acqua piovana.
Guscio vuoto.
Più ci avviciniamo e saliamo sui colli più tu ti stringi, come un marinaio che si scopre infelice man mano che s'avvicina la terra.
Siamo io e te sui manici gialli dell'entrata posteriore.
Sei assente dentro quel maglione grigio, lo sguardo scivola via senza aggrapparsi a nulla, cerchi solo il tizio che deve farci entrare.
Vai a capire come diavolo hai fatto a trovarlo.

Quando salgo le scale lui sta già andando via.

Come la nebbia, come le cose dimenticate, come le chiavi di casa dentro una borsa troppo grande.
Come un amore perduto dentro le pieghe del tempo.
Bruciato da questa estate finita,
essiccato da questo vento scirocco.
Mentre l'Italia muore, muore anche lui.
Muore come muoiono gli animali abbandonati nei cortili.
Nel corridoio di un ospedale enorme senza posti letto, con la gente sparpagliata tra le scale e le finestre, a dividersi l'aria, a scambiarsi quel che resta della vita, a sfinire il coraggio delle tragedie.
Ognuno col sudario a vista, con la fortuna che non gira, con le finestre sconquassate che entra pioggia dai buchi ed esce speranza dal tetto si confondono lacrime e schizzi.

Provi a dargli un bacio su quella guancia che ormai è osso scosceso, sul colorito che è ormai carta gialla e sottile, sul sonno che è quasi coma, ma mentre lo fai il lettino scivola, slitta come fossimo pattini sul ghiaccio.
Mi guardi d'uno sguardo rassegnato, di una luce fievole e sconfitta, ti rispondo con uno sguardo rabbioso.
Ti faccio cenno d'aspettarmi mentre, da te,  piove fuori e dentro.
Rinsaldo la corazza che m'ha cucito addosso il tempo, a te serve un muro del pianto e a me un'anima nuova.
Respiro, conto, respiro di nuovo.
Scambio due parole col tizio del bar, faccio fruttare il mio capitale erotico senza toccarlo e risalgo le scale con una scatola di polistirolo, abbastanza leggero da non fare rumore, abbastanza ruvido da fare attrito.
Ci rinfodero la ruota del lettino e tu mi guardi come fossi matta e un genio assieme.
Non so consolare.
Non ho parole da appendermi al collo come le targhette dei gatti maldestri per riportarti a casa.
Certe volte non puoi fare niente, non puoi ricostruire un'anima, non puoi salvare nessuno.
Devi solo stare lì.
Esserci molto più che fare.
Ma lui questo non lo sa, lui si spegne come le candele nei cerchi magici, come nelle cose connesse e imprescindibili, intrecci di vita e morte insieme.


Credo nella maestosa ingiustizia che è fondamento di ogni rivoluzione.
Credo nelle cose sbagliate.
Negli ossimori che tengono in piedi la ragnatela del mondo.

Credo nella crudezza della vita e nella faticosa normalità della morte.
Oggi nessun miracolo.
Oggi San Gennaro è passato.
Oggi schizzichea.
E per sognare poi qualcosa arriverà.


Coldplay,  Fix you.

4 commenti:

Flo | 21 settembre 2011 alle ore 01:27
  

  "Lights will guide you home. And ignite your bones..." hai ragione. Era l'unica che poteva esserci.
Come te, voi. Potete solo esserci. E l'attesa consola. Il dopo, strazia. Ed il tempo, passa.
Posso solo ricordare. Ed Esserci. 

 
Gianandrea Ghirri | 22 settembre 2011 alle ore 15:15
  

  "Devi solo stare lì"
Ed è tutto. Nel vero senso del termine.
Ciao 

 
Gianandrea Ghirri | 22 settembre 2011 alle ore 23:40
  

  PS: l'ho consigliato sul mio profilo facebook. Da dove ho cercato 'la scalza' ed ho trovato un profilo pieno di oggetti d'artigianato. E' tuo? 

 
La Scalza | 22 settembre 2011 alle ore 23:43
  

  No, non sono brava con l'artigianato ; )
Neanche, non ho fb, un poco lo detesto anche =D 

 

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